Carmelitano, gloria onore e decoro della Chiesa di Randazzo
di Giuseppe Portale
Uno fra i tanti sacerdoti che nel vasto campo della Chiesa, lungo il corso dei secoli, hanno lavorato per il perfezionamento intellettuale e morale dell’umano consorzio, fu certamente il Beato Luigi Rabatà, gloria, onore e decoro della Chiesa di Randazzo.
La sua nascita, per la verità, è stata sempre oggetto di controversia presso gli storici, sia per il luogo, sia per la famiglia, sia per la data. Due antichissime e rispettabili città della Sicilia occidentale si contendono l’onore di avergli dato i natali: Erice e Trapani, anche se gli storici (fra i quali Rocco Pirri nella sua “Sicilia sacra”) propendono più per la prima che per la seconda. Nulla di preciso si sa pure per quanto riguarda l’anno di nascita. Tuttavia, nel “Giardino carmelitano nel quale si contiene l’historia con la vita e morte dei più illustri Santi di essa religione”, pubblicato a Palermo nel ‘600, troviamo scritto che “Circa gli anni di nostra salute 1443, regnando il Serenissimo Re Alfonso di Spagna, piacque a Dio manifestare al mondo la santità e virtù del Beato Luigi Rabatà…”. È questo, infatti, il periodo in cui visse e si trovò ad operare il Beato Luigi: il secolo XV, quando in Sicilia regnava il grande re Alfonso il Magnanimo che è da annoverarsi, se non fra gli ottimi, sicuramente fra i più buoni principi che sedettero sul trono dell’Isola la quale, in quel tempo, godette di un crescente benessere determinato da molti fattori, non ultimi la cessata guerra con gli Angioini di Napoli e il rinnovato ordine interno che veniva a sanare la piaga di una pressoché costante anarchia che si protraeva da quasi due secoli.
Educato dai genitori secondo i sani princìpi della dottrina e della morale cristiana, Luigi sin dalla più tenera età cominciò a disprezzare i beni di questo mondo e a dare chiari segni di vocazione alla vita religiosa. Giunto all’età richiesta, Luigi venne ammesso nell’“Ordine dei Carmelitani dell’antica osservanza” e indossò l’abito religioso nel celeberrimo convento di Maria SS. Annunziata sito due miglia distante da Trapani. Durante il noviziato si mostrò perfetto esemplare di tutte le virtù, sicché venne unanimemente ammesso ai santi voti di povertà, castità ed obbedienza.
Iniziati gli studi che dovevano portarlo al sacerdozio, si consacrò con tutte le forze alla lettura e meditazione della Sacra Scrittura, nella quale fece meravigliosi progressi, ed agli studi filosofico-teologici, nei quali si distinse fra i compagni per ingegno e diligenza. Non si sa di preciso la data della sua ordinazione sacerdotale, in compenso però i processi canonici della sua beatificazione ci dicono che egli, divenuto ministro di Cristo, abbracciò una forma di vita più perfetta.
Umilissimo com’era, avrebbe voluto che i suoi giorni trascorressero nel silenzio e nella solitudine del chiostro “da vero eremita” ma, costretto dall’obbedienza ad accettare l’ufficio di Priore nel Convento dei Carmelitani di Randazzo (fondato nel 1380 e intitolato a San Michele Arcangelo), seppe mirabilmente unire all’ufficio di Superiore la sua vita di penitenza e contemplazione con un indefesso lavoro apostolico.
Per conoscere più da vicino, e meglio, il tempo in cui visse il nostro Beato, non possiamo fare a meno di un piccolo riferimento alla storia dell’Ordine Carmelitano cui apparteneva il Rabatà. Ordine che, proprio in quel periodo, e come tutti gli altri Ordini religiosi del resto, era dibattuto fra vari tentativi di riforma. I Carmelitani, in particolare, ebbero due tipi di tale riforma: una, chiamata callistiana, dal nome del papa Callisto III che nel 1456 ne approvò il decreto, e l’altra, passata alla storia col nome di eugeniana perché sorta sotto il papa Eugenio IV. Uno dei conventi della riforma “callistiana” nelle province carmelitane di Sicilia si trovava a Randazzo, mentre gli altri si trovavano a Messina, Palermo e Catania.
Luigi, pur svolgendo la sua missione a Randazzo e nelle campagne vicine, col suo esempio, con la sua parola dolce e soave, col suo temperamento mite anche nelle più aspre avversità, riusciva a condurre innumerevoli anime a Dio, non stancandosi mai di purificare le coscienze mediante l’amministrazione del sacramento della Penitenza. Da buon samaritano, egli sapeva dare gli opportuni rimedi per liberare i peccatori dai lacci del demonio. Dotato di una inalterabile pazienza, tutti ascoltava, tutti induceva al pentimento delle colpe, usando grandissima carità. Non c’è, quindi, da meravigliarsi se da ogni parte accorrevano fedeli al solitario convento carmelitano di Randazzo per udire l’uomo di Dio e chiedergli conforto nelle amarezze della vita.
Fra le altre virtù, nelle quali si distinse, un posto importante occupa quella della mortificazione dei sensi. Per rendere obbediente il suo corpo, già peraltro affranto da molte penitenze, il Beato Luigi era solito digiunare a pane ed acqua persino nei giorni più solenni dell’anno come Natale e Pasqua. Attesa l’aspra vita che conduceva – come ebbe a dire il teste Giovanni Antonio Manueli, che conobbe molto bene il Rabatà, deponendo al primo processo di beatificazione nel 1533 – “era la persona sua tuta la fachi palida et honestissimu, cum l’ochi incaforchiati: era nella sua persona asciutto, con faccia pallida e onestissimo, con gli occhi incavati” (Cfr. copia notarile Atti del Processo Beato Luigi Rabatà presso la Biblioteca Comunale di Palermo, manoscritto inedito di fondamentale importanza per chi volesse conoscere qualcosa di storicamente fondato riguardo allo stesso Beato).
Benché insignito della sublime dignità di sacerdote, e posto, come superiore, al governo della sua comunità monastica, il Beato Luigi si considerava l’ultimo di tutti: i più umili lavori ed impieghi della casa religiosa erano da lui avidamente ricercati e scrupolosamente eseguiti. Inoltre, non avendo il suo convento mezzi sufficienti per il sostentamento dei religiosi, egli si recava personalmente alla questua per i villaggi e le campagne vicine. Poi, dopo aver girato tutto il giorno per la questua, distribuiva ogni cosa agli indigenti che incontrava per strada. Non cessava di confortare pazientemente gli afflitti, visitava gli ammalati, consigliava i dubbiosi, dissipava le nebbie spirituali fra i nemici e li faceva rappacificare, la porta del suo monastero era sempre aperta a tutti. A lui si deve, inoltre, la costruzione di una strada larga e spaziosa che da una delle Porte della città conduceva abbastanza comodamente, per quei tempi, al rinomato convento carmelitano.
Ovviamente, tanto bene non poteva piacere al nemico di Dio e degli uomini. Da qui le continue lotte che al nostro Rabatà venivano fatte da persone cattive e perverse, ed il feroce odio da parte di uno scellerato il quale, giurando in cuor suo di voler troncare l’esistenza dell’intrepido sacerdote, giunse a commettere, un tristissimo giorno, l’esecrabile delitto cui rimase vittima il Beato Luigi.
Di condotta irreprensibile e di vita integerrima, infatti, il Rabatà aveva già più volte ammonito per gravi mancanze un suo religioso suddito che – a detta sempre delle testimonianze dei processi canonici – era “grandissimu ribaldu e malu frati”.
Venuto a conoscenza di tali richiami, un certo Giovanni Antonio Cataluccio, fratello dell’inosservante religioso, un brutto giorno, armatosi di frecce, e più ancora di diabolico furore, si nascose lungo la via per la quale Luigi doveva necessariamente passare. Scorto il piissimo uomo, il Cataluccio lo prese di mira e, fatta scoccare del suo arco una freccia, si dileguò per la campagna non appena ebbe provato la feroce gioia di vederlo colpito alla fronte e stramazzare per terra in una pozza di sangue.
Trascinatosi a stento in convento, Luigi “stetti multi iorni et tempi malatu, et stetti cerci iorni culcatu”. Chiamato nella sua poverissima cella, un medico cercò di apportare i rimedi suggeriti dalla scienza di allora, ma a nulla approdarono le medicazioni poiché, dopo vario tempo, la grave ferita si volse in cancrena. E qui rifulse, ancora una volta, la virtù dell’insigne servo del Signore poiché, più volte insistentemente pressato a rivelare il nome dello scellerato che aveva osato commettere un sì orrendo sacrilegio, non solo non volle mai manifestarlo, ma incessantemente ripeteva che volentieri gli concedeva il perdono e pregava il Signore di volergli ugualmente usare misericordia: “et essendu spiatu cui li hauia datu ditta buzunata, ipsu negava non hauiri hauutu buzunata ma dicia che hauia cadutu di supra lu mulu…”.
Avvicinandosi infine il giorno del suo ingresso alla beata eternità, Luigi chiese e ricevette i sacramenti della Chiesa. Così, dopo più di due mesi d’inesprimibili dolori sopportati con pazienza veramente eroica, e ripetendo che di gran cuore perdonava al suo uccisore, si addormentò placidamente nel Signore il giorno di sabato 8 maggio 1490.
Il corpo, non deposto nella sepoltura comune come tutti gli altri, ma esposto in chiesa per tre giorni, attirava gli sguardi di tutti per la sua meravigliosa conservazione. I testi, interrogati giuridicamente nel primo processo canonico del 1533, affermavano, fra l’altro, che nei giorni seguiti al transito del santo religioso, il suo corpo non esalava alcun cattivo odore: “…Lu colpu di lu quali in ditti iorni tre altri publicamenti si dicia et non hauia nan daua fetu ne xauru malu nixunu… et per vidimi chistu miraculu multi persuni, malati acaxunati di mali fridu quartana et altri, andaunu cum loro deuocioni in dittu sanctu corpu et quillo tali tabutu tuccando sanavano di loro infirmatati…”.
Molte sono state, nel corso dell’ultimo mezzo millennio, le persone guarite da tanti mali, non appena venute a contatto con le reliquie del beato Luigi. Tantissime sono state liberate da orribili vessazioni ed ossessioni diaboliche, altre da febbri micidiali, altre ancora da malattie nervose, ecc…
Dopo diversi processi canonici, il 10 dicembre 1841 papa Gregorio XVI approvava il culto prestato da tempo immemorabile a “Luigi Rabatà da Randazzo”. Il 6 aprile dell’anno successivo veniva approvato l’Ufficio, l’Orazione ed il testo per il Martirologio. L’11 maggio Luigi Rabatà venne solennemente proclamato “Beato”.
I resti mortali di questo illustre e santo figlio della nostra amata terra, oggetto di venerazione sin da subito dopo la sua morte, riposano oggi, ben visibili, dentro un’urna sita sotto l’altare dell’Assunzione nella Basilica di Santa Maria in Randazzo. Parti di esse si trovano anche, in venerazione, in alcune chiese di Erice e di Trapani, indice del vasto raggio di risonanza avuto dal Beato, così come altro fattore che ne rende ancora oggi viva la memoria e la fede tra il popolo è la diffusione della sua immagine attraverso numerose opere di pittura e scultura diffuse un po’ ovunque, come ad Erice, a Catania, a Roma e, ovviamente, anche a Randazzo.
Un grande santo taumaturgico
di Giuseppe Portale
Tanti, veramente tanti, i miracoli attribuiti all’intercessione del Beato Luigi Rabatà, rilevabili dai verbali dei vari processi canonici. Impossibile riportarli tutti. Un tale Ruggero Romeo, per esempio, privato della vista in seguito a ferite ricevute (“Hauia statu anorbatu di intrambu lochii”), si accostò pieno di fede al cadavere del Servo di Dio e “li tornau la vista di l’uno ochio”. Per la qual cosa volle, in segno di gratitudine, sostenere le spese per una cassa ove collocare quei preziosi resti.
La figlia di certa Mansueta Lumalignu, ridotta allo stremo da altissime febbri, aveva addirittura ricevuto già il conforto degli ultimi Sacramenti. Perduta ogni speranza nei rimedi umani, la madre dell’inferma prega i Carmelitani di portare presso il letto della figlia alcune reliquie del venerabile Luigi affinché questa possa guarire. I buoni religiosi esaudiscono il desiderio dell’angosciata mamma. Non appena venuta a contatto con quelle sante reliquie, la moribonda immediatamente apre gli occhi, “stetti bona et sanau di ditta infirmatati”.
Molte furono, poi, le persone liberate da orribili ossessioni e possessioni diaboliche dalle quali venivano tormentate da lungo tempo. Negli stessi verbali, infatti, leggiamo che mentre era priore del convento del Carmine frate “Hieronimus Stancaimplano de civitate Randatii”, un certo Giovanni Antonio Lo Vigneri ed altri giovani giovani condussero in quella chiesa la signora Raimonda Lo Vigneri, “la quali era spiritata (indemoniata), la quali non la poteunu intrari in la ditta ecclesia et facia multi strepiti et rimuri cum spuma alla bucca, gridando a vuchi demoniaci, et cum grandi forza la portanu in la ditta ecclesia”. Lì il teste, in qualità di priore, iniziò davanti a Raimonda la lettura dei quattro Vangeli. Nel leggere quello di San Marco, tracciando un segno di croce sulla fronte dell’ossessa con la reliquia del Beato Luigi, la posseduta cadde a terra tramortita e vi rimase per un po’ di tempo, dopodiché si alzò sana e salva ringraziando Dio ed il beato Luigi. Se ne tornò, quindi, a casa come se mai fosse stata indemoniata e mai più venne disturbata dal Maligno. Erano presenti al fatto – come riportato nello stesso verbale – il reverendo frate Filippo di Giglia, lo spettabile don Francesco Riolo e molti altri ancora. (Atti del Processo canonico, sedute del 19 e del 22 novembre 1573).